Una profezia che si auto avvera: la scuola non ce la fa

Rapporto INVALSI 2023

Il rapporto INVALSI presentato il 12 luglio alla Camera dei Deputati, segnala ancora una volta la presenza di un’alta percentuale di insuccesso formativo in particolari aree del Paese.

Occorre una profonda riflessione sulle prove somministrate e su quanto siano effettivamente in grado di costituire una risorsa coerente ed efficace per interpretare lo stato di salute del sistema. D’altro canto, la valutazione di sistema è uno strumento necessario in tutela del principio di equità nell’ispirazione delle pratiche dei decisori politici.

Il rapporto INVALSI è solo una delle possibili fonti che ribadiscono problemi che hanno radici lontane: la dispersione scolastica, il successo formativo, la prosecuzione negli studi universitari canalizzata e insufficiente, sono fenomeni documentati ampiamente che restituiscono un quadro differenziato nelle dimensioni macro e micro dei territori e strettamente connesso alle condizioni socio-economiche e culturali, su cui non si interviene con effetti positivi da decenni.

Ogni anno, infatti, ci viene restituita la stessa narrazione, con solo piccole variazioni sul tema, ma con un’identica trama: siamo di fronte a un sistema scolastico debole, iniquo, che non riesce a colmare le differenze di partenza.

Ma nonostante questo, da anni si continuano a non definire i livelli essenziali che ogni scuola dovrebbe garantire, quelli di competenza degli enti locali per il diritto allo studio; restano costanti i divari territoriali e le povertà educative per le politiche economiche e del lavoro; non cambiano radicalmente le modalità di formazione e di reclutamento degli insegnanti, i criteri di assegnazione delle risorse. Insomma, i dati INVALSI non producono nessuna retroazione sulle politiche scolastiche e territoriali e sul modello di scuola che il mondo politico intende garantire.

Eppure una valutazione di sistema è necessaria per:

  • il monitoraggio della tenuta del sistema scolastico su tutto il territorio nazionale, con un’idea di scuola unitaria per il Paese come sfondo;
  • l’orientamento delle scelte in materia di politiche scolastiche, formative e di sviluppo sociale;
  • l’informazione a scuole e docenti sul livello degli apprendimenti dei propri alunni, anche confrontandoli con quelli di scuole con alunni dal background familiare simile;
  • l’attivazione di processi regolativi dell’insegnamento dando un feedback sui risultati dell’azione pedagogico-didattica, sostenendo progettualità, riflessività, auto-regolazione;
  • la crescita di consapevolezza culturale e professionale che la scuola e chi vi lavora hanno precise responsabilità in merito ai risultati raggiunti dagli studenti. E che l’esercizio di questa responsabilità è nell’interesse non solo dei singoli individui, ma dell’intera comunità nazionale.

A monte dell’interesse per una valutazione di sistema, ci dovrebbe essere il riconoscimento della funzione sociale della scuola e del suo mandato costituzionale: la rimozione degli ostacoli per garantire a tutte e tutti il diritto all’apprendimento e all’ acquisizione di competenze di cittadinanza.

Invece, stando a quanto emerge dalla serie storica dei rapporti INVALSI, essi non hanno promosso alcun cambio di direzione nelle politiche pubbliche: un limite oggi ancor più inaccettabile, con un governo e un ministero ispirati dal fantomatico “paradigma del merito” nell’applicazione di un PNRR verticistico, condito da riforme e investimenti mal progettati e poi mal ricalibrati, a cui sembra mancare una visione pedagogico-politica strategica.

Povertà educative

I dati confermano la diretta correlazione tra povertà (della famiglia, del territorio) e qualità dei percorsi educativi: ci dicono che l’insuccesso si acuisce proprio dove la crisi economica determina squilibri irrisolti. Ma ci dicono anche che condizioni di vita decorose sul piano economico e sociale non sono sufficienti a motivare la partecipazione al processo dell’educazione. La motivazione per essere a scuola, per esserci con il corpo e con la testa, non può realizzarsi in un contesto educativo in cui a prevalere sono l’ideologia del merito (premessa dell’insuccesso di cui si è colpevoli), la focalizzazione sugli obiettivi, l’ipertrofia digitale, la competizione (tra individui e scuole) e la falsa promessa che essa migliori tutto e tutti, purché si accetti di migliorare a velocità diverse e in condizioni diseguali.

La riforma della formazione degli insegnanti

In una scuola secondaria che fatica ad abbandonare un modello trasmissivo, nozionistico, centrato su pratiche autoritarie e sicuramente non inclusive, con l’ultima riforma attuata nel quadro di quanto previsto dal PNRR, la formazione iniziale prevede l’acquisizione dei 60 crediti formativi diluiti nel percorso di laurea disciplinare, acquisiti anche attraverso università telematiche e a distanza.

Non ci sarà da sorprendersi se molti tra i futuri insegnanti, come molti tra gli insegnanti già in servizio si limiteranno a far acquistare ai loro studenti il libro per la preparazione ai test INVALSI, riducendo tutto ad un addestramento, piuttosto che cogliere l’opportunità di trarne informazioni utili, di riflettere e produrre una retroazione positiva della valutazione su insegnamento, pratiche didattiche e modalità organizzative del fare scuola

Nelle misure previste dal PNRR è stata prevista la formazione in servizio obbligatoria centrata sulla transizione digitale. Una scelta che non tiene conto che le competenze digitali dell’insegnante non saranno in grado di produrre innovazione se non accompagnate da cambiamenti delle pratiche didattiche e delle teorie dell’apprendimento a esse sottese.

Le tecnologie in sé non rappresentano un valore aggiunto se non inserite nel quadro di una pedagogia differenziata, inclusiva, di un approccio interdisciplinare. In più si lascia che la formazione in servizio (incentivata) continui a rispondere unicamente a scelte individuali, ed essere priva di ogni forma di riflessione e valutazione sulla ricaduta effettiva del percorso sull’insegnamento, nella classe, nelle pratiche collegiali; incapace quindi di innescare processi reali di cambiamento per la realizzazione del PTOF e del Piano di Miglioramento.

La razionalizzazione degli organici e il dimensionamento scolastico

L’ultima legge di bilancio ha previsto il dimensionamento degli istituti scolastici con la riduzione progressiva del numero di dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi amministrativi in risposta al calo demografico. Il criterio di 900/1000 studenti al fine del riconoscimento dell’autonomia scolastica prevede l’accorpamento delle scuole senza nessun criterio di tipo qualitativo.

Non si considerano le specificità dei territori più sfavoriti, né i segmenti di scuola dove s’innestano le condizioni per l’insuccesso formativo e la dispersione. A prescindere dai risultati INVALSI, agli istituti scolastici è stata applicata la stessa logica aziendale: razionalizzare le risorse e produrre risparmio. Quella logica che negli ultimi decenni ha determinato a scuola le condizioni da cui vengono fuori i mancati apprendimenti rilevati dall’ INVALSI.

Il ministro Valditara, che il 12 luglio ha sottolineato “l’importanza fondamentale dell’acquisire dei dati sulle competenze che i nostri giovani formano nel loro percorso scolastico e che l’INVALSI misura annualmente”[1] , fa parte della maggioranza politica che rivendica l’autonomia differenziata delle Regioni anche per le materie relative all’istruzione.

Venendo meno l’impegno per un sistema scolastico unitario, garante del pluralismo, dell’unitarietà dei percorsi di istruzione ed educazione, quale sarà il ruolo dell’INVALSI?

Restano poi altre questioni aperte sull’impianto complessivo del sistema di valutazione nazionale. Non si comprende bene perché si continui a concentrare l’attenzione soltanto sul rapporto INVALSI, tralasciando le altre fasi del procedimento di valutazione: il monitoraggio dei processi di autovalutazione delle scuole, i piani di miglioramento e le azioni di rendicontazione sociale che restano, per lo più, le grandi sconosciute anche tra gli addetti al lavoro.

Andrebbe maggiormente sottolineata la necessità di un sistema di valutazione di sistema articolato a più livelli tenuti insieme in modo coerente e dialogico. Questo anche a garanzia del processo partecipativo delle scuole e dei docenti, senza il quale risulta difficile attivare processi di cambiamento.

Si parla poco dell’auto-valutazione delle scuole che, confrontata con la valutazione esterna, permette di elaborare il piano di miglioramento da inserire nel PTOF. In presenza di un processo interno (non burocratizzato e lasciato ai soli componenti dello staff di presidenza) i risultati INVALSI sono un’importante risorsa per il collegio dei docenti; uno strumento attraverso cui l’istituzione riflette su se stessa, individua criticità, possibilità di intervento.

Occorre investire di più nell’accompagnare le scuole nell’autovalutazione, per la costruzione di una dialettica tra valutazione esterna e interna, prevedendo spazi di dialogo tra quanti, a diversi livelli di competenza, sono coinvolti nel procedimento, comprendendo oltre ai docenti, le famiglie, gli studenti, gli attori sociali presenti sul territorio.

La rendicontazione sociale, ad esempio, in questa direzione ha un’importanza determinante non solo perché è l’espressione di una responsabilità consapevolmente assunta dai lavoratori della scuola, ma perché rafforza il patto pedagogico con le famiglie, gli studenti e le studentesse, gli enti locali e in generale il territorio.

Un approccio che si fa testimone di una diversa e più democratica idea di scuola.

L’INVALSI ostaggio di una profezia che si auto-avvera: “la scuola non ce la fa”

Di fronte a queste incoerenze, omissioni, ci sembra evidente che la valutazione di sistema è alla mercé di chi ha interesse e si limita a evidenziare le difficoltà della scuola al solo scopo di confermare che la scuola non ce la fa. Partire da questo dato per giustificare un’idea di sostitutività dell’azione dei docenti secondo il principio: “dove non arriva la scuola arrivano gli altri”.

Da tempo le politiche del Paese di fronte a una a scuola che “non ce la fa”, introducono nuove figure, nuovi protocolli, l’intervento di pedagogisti, psicologi, terzo settore. È certamente importante allargare la base di responsabilità per una più̀ ampia condivisione del compito educativo, ma occorre avere la consapevolezza che nessuna figura specialistica, interna o esterna alla scuola, potrà promuovere successo formativo se non cambiano le condizioni strutturali (n° alunni per classe e classi per istituto, superamento del precariato, generalizzazione del tempo pieno, risanamento dell’edilizia scolastica, abolizione del voto, ecc. ecc.) e le condizioni pedagogiche del fare scuola.

Per noi del Movimento di Cooperazione Educativa una priorità è la formazione iniziale e in servizio per sostenere lo sviluppo di una professionalità orientata a una pedagogia differenziata, liberatrice dai condizionamenti culturali, sociali; interculturale, rispettosa delle differenze individuali; articolata ed esperta sul piano didattico in cui l’insegnamento simultaneo e collettivo sia affiancato e sostenuto da attività di gruppo, individualizzate; competente sul piano della progettazione didattica e della valutazione formativa; attrezzata nel monitorare e curare i processi, controllarne le variabili, mettere a disposizione di chi apprende le tecniche, le modalità organizzative e i materiali necessari per garantire il diritto all’apprendimento.

Dobbiamo allora presidiare quei terreni in cui è ancora più a rischio il mandato costituzionale della scuola: autonomia differenziata, ideologia del merito, burocratizzazione del mestiere. Occorre costruire un paese in cui la valutazione di sistema responsabilizzi i decisori politici e non veicoli giudizi sommari né su chi lavora né su chi è in formazione; un paese in cui il presidente dell’Invalsi non sia motivato ad affermare che “un anno di scuola in Veneto vale come due anni di scuola in Calabria[2]”, perpetuando la declaratoria di differenze epocali per cui nessuno pare debba dar conto di aver già sprecato risorse e parole. Occorre pensare ad un paese in cui la scuola sia di interesse prioritario per la politica, per la società e per le istituzioni. Bisogna investire nella scuola inclusiva, emancipatrice per tutte e tutti, al centro di un progetto pedagogico di cura del tessuto sociale, con l’obiettivo di superare la canalizzazione deterministica dei percorsi di studi sulla base delle condizioni socio-economiche e culturali di partenza. Vogliamo che le scuole siano accoglienti, che sia riconosciuto il loro valore e il valore di chi ci lavora a sostegno della crescita e della realizzazione personale di ciascuna e ciascuno. Vogliamo che siano luoghi in cui sia bello ritrovarsi per imparare, per insegnare, per incontrarsi, per contaminarsi ed evolvere, ogni giorno dell’anno fino alla maturità: un presidio della pace e del rispetto verso l’ecosistema, che nutre le radici forti della Costituzione, nella partecipazione attiva alla realizzazione della democrazia e del bene comune.


[1] https://www.invalsiopen.it/presentazione-rapporto-invalsi-2023/

[2] Roberto Ricci, conferenza sul rapporto Invalsi luglio 2019