Editoriale Newsletter MCE dicembre 2022

Le tre consapevolezze di MCE
Tra politica generale e centralità delle pratiche didattiche
di Anna D’Auria

Premessa
Il MCE è nato in Italia nel secondo dopoguerra in un contesto politico-pedagogico estremamente
difficile: una scuola da defascistizzare, un forte vuoto pedagogico occupato prevalentemente dal
mondo cattolico che spingeva verso una scuola confessionale (come poi si è verificato con i
programmi del ’55), l’assenza di una qualsiasi riflessione sulla didattica in una scuola in cui prevaleva
il retaggio dell’idealismo gentiliano. Eppure, nonostante questo e in risposta a questo, si sviluppò un
forte movimento di educatori, insegnanti, pedagogisti che, indipendentemente da interventi che
cadevano dall’alto, riuscirono a condividere riflessioni, azioni, pratiche didattiche nel comune
obiettivo di realizzare i valori costituzionali e nuove forme di convivenza civile rivendicando il nesso
tra democrazia ed educazione e il riconoscere alla scuola una precisa funzione sociale di
emancipazione.
Su questi principi si è sviluppata la pedagogia democratica del 900, sono nate relazioni, scambi,
contaminazioni tra educatori, insegnanti, università che collegavano aree geografiche diverse del
paese, si è sviluppata la ricerca didattica attingendo da quanto già c’era, e da tempo, all’estero.
La nascita della Cooperativa della tipografia a scuola nel 1951, poi diventata MCE, s’innesta e
continua ad alimentare questa storia, restando incardinata sulle stesse tre profonde consapevolezze
politico-pedagogiche.


PRIMA CONSAPEVOLEZZA: scuola strumento della politica per produrre consenso
La prima consapevolezza sulla quale si è strutturata la proposta politico-pedagogica MCE riguarda la
coscienza che qualsiasi progetto politico (soprattutto nella sua dimensione implicita al di là di ogni
retorica nel dibattito pubblico della politica) si serve di un preciso progetto pedagogico per essere
realizzato. Progetto portato avanti innanzitutto dal sistema scolastico, ma anche da quello
universitario.
Gli ordinamenti, i curricoli, l’apparato normativo, la quantità e qualità delle risorse assegnate, i tempi
e gli spazi del fare scuola, i percorsi per la formazione degli insegnanti, dei dirigenti, i profili
professionali previsti dai contratti, le modalità di reclutamento sottendono e sono portatori di una
precisa visione di individuo e di società che la politica attraverso il sistema scolastico intende
realizzare. Questo spiega perché la scuola da sempre è ostaggio delle riforme dei governi di turno.
Attraverso il sistema scolastico, la politica ha interesse a costruire un determinato senso comune,
credenze, visioni circa i rapporti sociali e il mondo. Soprattutto, a produrre una precisa cultura del
consenso.
Nel paese sbagliato, pensando a Lorena, una sua alunna, Lodi scrive:
“Penso a quanti delitti si compiono nella scuola organizzatrice del consenso al sistema, o meglio della
coercizione dell’assenso. Suo fine non è il bambino libero, non è l’uomo felice. Difendere l’uomo
significa mettersi dalla sua parte e rifare scuola e sistema e tutto.»
Questo spiega perché, nonostante sia chiaro da molto tempo che la scuola italiana continua a produrre
disuguaglianze (lo stesso sistema di valutazione nazionale non fa che confermare da anni l’alta
percentuale di abbandoni e dispersione nelle fasce più deboli della popolazione) non se ne cambia il
modello che ne è alla base.
Anzi, soprattutto negli ultimi decenni, è chiaro il progetto di indebolimento della scuola pubblica, che
proprio in questa nuova stagione politica diventa sempre più aggressivo ed esplicito.
Rivendicare il merito, a partire dal nome dato all’ultimo ministero dell’istruzione, parlare di
formazione in servizio opzionale, individuale e incentivata; continuare a proporre contratti di lavoro
che non restituiscono pienamente la dignità salariare a un mestiere complesso e impegnativo come
quello degli insegnanti; sentire un ministro parlare di una pedagogia dell’umiliazione/dell’umiltà per
contrastare il bullismo, riproporre il docente tutor senza le condizioni per costruire autentiche
comunità di pratiche, significa chiaramente continuare a non avere visione del compito pedagogico
della scuola, del suo mandato costituzionale del rimuovere gli ostacoli, della giustizia e necessità
storica di una scuola di tutte e di tutti.
In queste ultime settimane la legge di bilancio ha previsto il dimensionamento degli istituti scolastici
con la riduzione progressiva del numero di dirigenti scolastici e dei direttori dei servizi amministrativi
in risposta al calo demografico.
Il criterio di 900/1000 studenti al fine del riconoscimento dell’autonomia scolastica prevede
l’accorpamento delle scuole senza nessun criterio di tipo qualitativo. Non si tiene conto dei territori
più sfavoriti, dei segmenti di scuola dove s’innestano le condizioni per il sorgere dell’insuccesso
formativo e della dispersione, del ruolo dei DS, che non può essere ulteriormente schiacciato su
aspetti amministrativo-gestionali, cosa che avverrebbe dovendo gestire ancora più plessi del suo
istituto sparsi in aree territoriali distanti. Senza considerare che il cambiamento possibile della scuola
richiede un forte investimento sull’unitarietà e progettualità del collegio dei docenti, sui processi che
è in grado di attivare, in termini di ricerca-formazione per l’innovazione didattica, la sperimentazione,
il dialogo con il territorio che non potrà essere garantito stabilendo come unico criterio per il
riconoscimento dell’autonomia il numero di iscritti da raggiungere accorpando le scuole.
Certo, il ministro nella relazione che accompagna la tabella 7 di previsione di spesa nella legge di
bilancio, ci rassicura: i risparmi realizzati con la riduzione dei DS e dei DSGA, ritorneranno nella
scuola per il fondo di dirigenza, per pagare le supplenze, per il fondo d’istituto e della buona scuola…
come se l’organizzazione del sistema scolastico prevista dal PNRR si esaurisse attraverso lo
spostamento dei capitoli di spesa, senza una direzione, una visione, un progetto soprattutto quando il
calo demografico potrebbe diventare un’occasione per la riqualificazione della scuola.
La riorganizzazione del sistema scolastico, prevista dal PNRR, fatta così penalizzerà i territori più
poveri anche in relazione alla capacità e visione pedagogica delle amministrazioni locali che
dovranno occuparsi del dimensionamento in assenza di criteri comuni a livello nazionale se non il
riferimento a quelli meramente quantitativi.
Si prospetta quindi un ulteriore intervento sulla scuola ricorrendo alle stesse logiche di risparmio che
hanno determinato e continueranno a produrre la crisi del sistema e l’insanabile emergenza educativa
del Paese.


SECONDA CONSAPEVOLEZZA: non ci sono uscite democratiche per il Paese senza una
scuola democratica

Tuttavia, pur non trascurando l’analisi e la critica alle politiche scolastiche, che condizionano esiti e
confini dell’azione della Scuola, in una prospettiva di cambiamento, l’altra consapevolezza presente
dalle origini di MCE riguarda la convinzione che non ci potranno essere uscite democratiche per il
Paese senza la rimozione dei luoghi comuni regressivi che sono entrati nella scuola e nella cultura del
Paese e l’impegno concreto di formare il maggior numero di cittadini con competenze culturali di
base, in grado di esprimere pensiero libero, capacità critica, ricerca (condizione, scriveva Ortensia
Mele, del piacere dell’apprendere).
Per questo, come è stato per i pionieri della Tipografia a scuola, ancora oggi, pur non trascurando
l’analisi e la critica alle politiche scolastiche, che sicuramente condizionano esiti e confini dell’azione
della Scuola, il MCE insiste sulla stessa prospettiva: il cambiamento possibile della scuola e del Paese
ha a che fare con quello che educatori, insegnanti fanno concretamente nelle classi, nelle aule
universitarie. Dipende dall’impegno, individuale e collettivo, immaginabile per costruire “dal di
dentro”, luoghi comuni più evoluti in senso democratico e assicurare le condizioni per superare le
disuguaglianze e gli insuccessi, per la costruzione di un futuro culturale, politico e sociale diverso.
Tutta l’esperienza di MCE, sviluppata a partire dalla fase di post-fascismo, ci dice che gli insegnanti
hanno la possibilità di scegliere, di autodeterminarsi e di fare la differenza.
Mario Lodi nel Paese sbagliato ha scritto: «Ciò che siamo si rivela subito il primo giorno, quando di
fronte ai bambini devi decidere come impostare il tuo lavoro: per asservire o liberare».
L’impegno per una scuola democratica oggi non riguarda solo avere meno esclusi dal circuito
formativo (che già sarebbe tanto), ma contrastare la deriva culturale che coinvolge anche chi arriva
al successo scolastico. Emancipare dall’individualismo, dal consumismo, dal pensiero unico, dalle
discriminazioni, dall’uso violento della parola e non solo della parola, oggi è una priorità educativa.


TERZA CONSAPEVOLEZZA: la centralità delle pratiche
Rispetto all’esercizio della responsabilità degli insegnanti nel liberare i potenziali di ognuno e ognuna
per un pensiero critico, creativo, non omologato per una cittadinanza responsabile, la domanda è
sempre la stessa: «Attraverso la costruzione di quali condizioni didattiche io insegnante posso
esprimere questa scelta?»
Non basta, infatti, la semplice adesione ai valori costituzionali, il sapere teoricamente (come
insegnano le università) quanto sia importante la centralità del soggetto, il ruolo del gruppo, cosa
siano le didattiche attive, conoscere i traguardi di competenze previsti dalle Indicazioni Nazionali del
2012 e (se va bene) la dichiarazione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Occorre che questi valori, principi, trovino espressione tangibile in classe e a scuola modificando
materialmente la formulazione delle proposte didattiche e l’organizzazione concreta del lavoro.
È attraverso le pratiche didattiche e il mettersi in ricerca da parte dei docenti che si propongono
implicitamente modelli di comportamento, valori, visioni del mondo: si educa a subire o praticare
forme di potere, ingiustizie o al contrario a contrastare ogni forma di discriminazione, di
emarginazione e concezione conflittuale e gerarchica della società.
Per quanto non sia facile, parlare ad una categoria di lavoratori con grandi divari nella formazione,
mortificata da adempimenti burocratici, dal richiamo costante del ministero a porre attenzione ai soli
risultati (le prove INVALSI sono ritornate con il nuovo ministero obbligatorie per sostenere l’esame
di Stato), senza occuparsi concretamente dei mezzi del fare scuola, l’impegno di MCE continua
principalmente nella stessa direzione: promuovere la consapevolezza che la leva principale e
straordinaria del cambiamento è dare centralità alle pratiche didattiche cooperative e alla loro
sperimentazione e farlo a partire dal qui e ora della propria realtà professionale per promuovere lo
sviluppo di un collettivo di ricerca e apprendimento.
Il mestiere dell’insegnante, infatti, non è un viaggio in solitaria, non basta realizzare “belle classi” di
maestri “eccezionali” che si accontentano di sperimentare le pratiche innovative nel chiuso della
propria aula e con i “loro” alunni/e.
Serve portare nei gruppi, nelle scuole lo spirito cooperativo, la spinta a misurarsi con il nuovo, a
riflettere e a provarsi insieme nelle pratiche didattiche, nei progetti d’istituto, nel rapporto con le
famiglie e il territorio per un cambiamento sostanziale della scuola.
È un impegno difficile, complesso per gli insegnanti democratici, perché la realtà del lavoro è spesso
ostile, perché prevale in questa fase storica una forte spinta all’individualismo, alla chiusura, alla
competizione; perché sono difficili le condizioni dell’organizzazione del lavoro (orari spezzatino,
precariato, numero di alunni per classe, forte aumento del disagio dei minori, scarsità di risorse e
scarsa abitudine a una loro gestione condivisa, indebolimento del ruolo genitoriale, scarsa
rappresentazione sociale della docenza), e perché da tempo le politiche scolastiche spingono
all’assunzione di una concezione burocratico-impiegatizia dell’essere insegnante e a una forte
gerarchizzazione delle relazioni negli istituti. .
Ma è un impegno necessario ed urgente nella convinzione che la rinascita del Paese passa attraverso
il modo in cui si fa scuola.
Per questo l’impegno per la ricerca, la sperimentazione, documentazione e disseminazione delle
pratiche didattiche cooperative, delle tecniche di vita di C. ed E. Freinet, così come agli esordi, resta
per i gruppi territoriali e nazionali MCE il fondamentale e principale strumento di cambiamento.


EQUIPE 4 PASSI PER UNA PEDAGOGIA DELL’EMANCIPAZIONE
Nell’assemblea 2022 la proposta dei 4 passi per una pedagogia dell’emancipazione del 2018, dopo
un lavoro costante dei quattro gruppi di ricerca che allora si erano costituiti: valutazione formativa,
organizzazione cooperativa della classe, didattica della ricerca e adozione alternativa al libro di testo,
didattica laboratoriale e organizzazione a classi aperte, è confluita nella costituzione di un’équipe di
ricerca nazionale.
Il lavoro dell’équipe da marzo 2022 sta procedendo nella direzione di una maggiore integrazione dei
4 passi, al loro più esplicito collegamento alle tecniche di vita di C. ed E. Freinet, centrali nella
Pedagogia popolare, alla formulazione di proposte unitarie di ricerca-formazione per i collegi dei
docenti di ogni ordine e grado di scuola.
Lo sfondo integratore del progetto dei quattro passi è riuscire a proporre e modificare con le pratiche
didattiche anche le scelte organizzative degli istituti nella convinzione che non c’è cambiamento se
non si mette in risonanza quello che si fa nella propria classe con quello che accade
nell’organizzazione complessiva della scuola.
La cooperazione come valore e metodo di lavoro dalla classe va estesa ai gruppi di lavoro, ai
dipartimenti, al collegio dei docenti per un’idea di democrazia fondata sulla coscienza della circolarità
tra interesse individuale e collettivo e sulla costruzione della conoscenza (anche quella professionale)
come bene comune. La scuola e la classe vanno concepite e vissute come esperienza sociale di
sperimentazione di un collettivo dove vivere, in modo organizzato e rigoroso, spazi di parola, di
responsabilità, di decisione, come iniziazione ed esercizio alla vita democratica per gli/le alunni/e, e
costante rinnovamento alla declinazione della responsabilità professionale dell’insegnante. Una
cooperazione praticata anche nel rapporto con le famiglie, con il territorio, capace di istituirsi come
primo e fondamentale curricolo implicito.
Altro elemento centrale è la necessità che le pratiche didattiche tengano insieme: soggetti, saperi,
teoria e prassi, le esperienze scolastiche con quelle vissute nel contesto di vita ponendo al centro il
valore delle interdipendenze, delle interconnessioni tra soggetti, culture, linguaggi, discipline, tra
l’educazione formale e quella informale.
I gruppi di ricerca sperimentano e propongono strumenti per la valutazione formativa come il piano
di lavoro, gli schedari, i brevetti; l’adozione alternativa al libro di testo per una didattica della ricerca
che permetta la messa in relazione di punti di vista diversi sugli eventi del mondo avendo a
disposizione una pluralità di materiali per cogliere relazioni, selezionare, combinare dati su cui
lavorare; l’organizzazione cooperativa della classe con un’attenzione rigorosa agli spazi di parola e
partecipazione con l’uso di tecniche che vanno dal quoi de neuf, al testo libero, all’assemblea di
classe, la ricerca d’ambiente e dove lo stesso spazio fisico dell’aula suggerisce una psicopedagogia
dell’accoglienza e della vicinanza; e ancora la corrispondenza, il giornalino (integrato dall’uso delle
tecnologie), la radio,…
Il tutto concepito in uno spazio di progettazione curricolare reticolare focalizzata, non sul
“programma da svolgere”, ma sui processi individuali di apprendimento, capace di leggere e
collegarsi alle diverse storie, culture, linguaggi, ai bisogni formativi ponendo al centro del lavoro e
della progettualità formativa i soggetti e non i saperi in sé.
Sono alcune delle proposte MCE la cui condivisione, replicabilità, diffusione permette di contrastare
l’uso diffuso nella scuola di strumenti passivizzanti dei soggetti dove a prevalere è l’egemonia della
parola dell’insegnante, di un’unica fonte di conoscenza, dell’attenzione ai soli risultati in assenza di
uno sguardo sui soggetti e di un controllo sui processi di apprendimento, di progettazioni curricolari
precostituite, scandite da sequenze lineari di obiettivi, chiuse all’imprevisto e al nuovo.
Le pratiche didattiche cooperative sono il mezzo, al cui uso MCE chiama le forze democratiche della
scuola, del mondo dell’associazionismo, dell’università, per una rivoluzione silenziosa capace, come
scrive Massimo Baldacci in La scuola al bivio tra mercato e democrazia, richiamandosi a Gramsci
“…di promuovere una lotta culturale contro-egemonica volta a impedire che la formula pedagogica
del sistema politico abbia la supremazia”.