Attraversare il conflitto

L’educazione crea ponti, abbatte muri

di Anna D’Auria, Segretaria Nazionale MCE

Chieti, 2 – 5 Luglio 2019

QUOI DE NEUF? 

Uno dei rituali della pedagogia Freinet è il quoi de neuf

E’ istituito all’inizio della mattina, arrivando in classe. E’ una sorta di transizione tra scuola e casa, tra la famiglia e la classe. Le bambine e i bambini raccontano quello che hanno voglia di dire, le cose che li interpellano, quelle che danno loro dispiacere,  che sono sentite come problemi. Lo scopo è permettere al bambino di lasciare nel gruppo ciò che gli sta a cuore, di aprirsi agli altri. Una sorta di testo libero che incoraggia l’espressione, la condivisione e al contempo permette all’insegnante di cogliere gli umori, i problemi che i bambini portano in classe. 

Quoi de neuf è anche l’input per la co-progettazione del gruppo Cantieri. 

Chiamarsi Cantieri non è un caso: rimanda proprio all’idea di un’area di lavoro che dura un anno intero e nella quale si svolge la costruzione collettiva di un’opera, che è il percorso di formazione che parte oggi qui a Chieti. Durante un intero anno, e a partire da un quoi de neuf,  insegnanti giovani e in servizio, studenti, educatori e insegnanti non più in servizio, assumono problemi,  elaborano ipotesi, scambiano ed elaborano materiali, organizzano il percorso per poi alla fine verificarlo e riprogettare. Un anno di dialogo attraversando differenze, modi diversi di vedere le cose, sperimentando a volte anche il conflitto, che nasce nell’incontro di punti di vista diversi, perché anche nel gruppo Cantieri c’è l’incontro di differenze, anche inter-generazionali.   

Il  quoi de neuf  di quest’anno è stato la constatazione del clima sociale e culturale del nostro paese caratterizzato sempre più da tensioni,  contrapposizioni, conflitti. Aumentano i pregiudizi, cornici mentali dalle quali si fatica sempre di più a uscire. Aumentano gli episodi sempre più preoccupanti di incitamento alla xenofobia, se non all’odio vero e proprio verso gruppi e fasce deboli di popolazione. 

Si assiste a una vera e propria deriva sul piano dell’affermazione dei diritti di tutti, con particolare attenzione a quelli delle bambine e dei bambini e prevale tra la gente e nel Paese un clima di diffidenza, separazione, sospetto, paura. 

Le persone che si sentono insicure, che diffidano di ciò che il futuro potrebbe riservare loro e che temono per la loro sicurezza personale, non sono veramente libere di assumersi i rischi che l’azione collettiva comporta.

L’unico ambito in cui si crede che qualcosa possa essere fatto è la sicurezza personale. […] Si finisce col vivere privi di modelli di bene.  

Noi siamo qui. Si sono messi in moto meccanismi culturali, sociali, politici che stanno avvelenando i pozzi dove sgorga l’acqua della convivenza nel nostro paese. Ma quell’acqua la dobbiamo bere tutti

Franco Lorenzoni parla di un Paese che è diventato un’intera terra dei fuochi e ci vorranno generazioni di bonificatori per eliminare il veleno che si sta quotidianamente instillando nel tessuto sociale.

L’indebolimento della base della convivenza sociale tenta di minare anche il modello educativo accogliente e inclusivo così come si è evoluto nell’ordinamento italiano a partire dalla stagione delle grandi riforme e con la legge L.517/1977 .

L’anno scolastico 2018-2019 è stato particolarmente difficile per educatori, insegnanti, dirigenti. 

A tutti gli insegnanti è stato ancora una volta ribadito che si deve educare alla cittadinanza attiva bambine/i, ragazze/i ai quali di fatto non si riconosce la cittadinanza; che per loro non è un problema non potersi dire italiani e vivere con un’identità sospesa. Così come non è preoccupante la percezione che hanno i bambini italiani nel crescere in contesti in cui i diritti tra pari sono tanto diversi. 

Agli insegnanti di Lodi è stato invece domandato di farsi complici di un aparthaid durante il tempo mensa, che di fatto è tempo scuola, separando i bambini; a quelli di Minerbe di spiegare perché al posto del pasto di tutti  ad alcuni venivano dati una scatoletta di tonno e dei crakers. 

A Palermo gli insegnanti non hanno trovato argomentazioni sostenibili che potessero far comprendere alle studentesse e agli studenti il perché una loro collega fosse stata allontanata  15 gg dall’insegnamento per un  lavoro in cui aveva fatto ciò che viene chiesto all’insegnamento: sviluppare le capacità critiche negli studenti. 

A fine anno è arrivato l’occhio vigile delle telecamere che ha ulteriormente sancito l’istituzionalizzazione della cultura del sospetto, la sfiducia nella costruzione collettiva di un’etica pubblica, di una scuola aperta, luogo di costruzione democratica. Un atto di sfiducia verso l’intera comunità educante. 

Delegare il controllo a telecamere indebolisce il senso di appartenenza alla comunità,  deresponsabilizza, opera un  riduzionismo rispetto al necessario impegno di insegnanti e genitori nella costruzione del dialogo e dell’alleanza educativa. 

Prima ancora c’era stata la proposta di regionalizzazione differenziata, così come formulate da Veneto e Lombardia. Queste regioni chiedono che diventino loro materia esclusiva: gli ordinamenti, la gestione delle risorse, il reclutamento degli insegnanti. Propongono una regionalizzazione a geometria variabile che finirebbe per cristallizzare le asimmetrie, le disuguaglianze sociali esistenti tra nord e sud, in un’Italia dove la geografia della nascita condiziona ancora pesantemente il destino di bambine e bambini. 

La scuola italiana è sempre più lontana dal garantire equità nei risultati. Aumenta la dispersione scolastica, concentrata soprattutto nelle regioni del sud e nelle isole, e la disparità di condizioni educative tra regioni italiane. Basta pensare alla distribuzione e la consistenza dei servizi alla prima infanzia (nidi e scuole dell’infanzia),  del tempo pieno, dei risultati scolastici (dai dati INVALSI emerge che la percentuale di alunni che non raggiunge il livello previsto dalle Indicazioni Nazionali è preoccupante al sud e nelle isole). A ciò si aggiunge il fenomeno fortemente in crescita di micro-processi territoriali di polarizzazione della popolazione scolastica che coinvolge bambine e bambini stranieri, ragazze e ragazzi provenienti da famiglie culturalmente deprivate e che va ben oltre le storiche differenze tra centro e periferie. In alcune scuole appartenenti allo stesso quartiere si concentra maggiormente lo svantaggio socio-economico-culturale dando luogo, di fatto, a forme di segregazione scolastica.

I padri e le madri costituenti erano già consapevoli delle enormi differenze nell’accesso ai diritti, in particolare al diritto allo studio per questo inserirono gli artt.  3 – 33 “Compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e posero la questione meridionale come centrale per l’unità e lo sviluppo del Paese. Questione, quella meridionale, che sparisce nella prospettiva della regionalizzazione differenziata e sarà normale avere scuole tanto diverse nelle risorse, nella proposta formativa, nella professionalità degli insegnanti  rompendo così di fatto l’elemento culturale e sociale fondamentale per la stessa unità nazionale. 

Rispetto a tutto questo ci chiediamo allora se basterà aver introdotto le 33 h  dell’ Educazione civica per  costruire   coesione sociale e cittadinanza, se altri dispositivi normativi, comportamenti, linguaggi  introducono invece elementi di discriminazione, divisione, separazione, emarginazione e conflitto nella società civile. 

La scuola è chiamata in questo momento a un compito importante. 

N. Postman nel1981 in La scomparsa dell’infanzia ha parlato difunzione termostatica della scuola. Allora, di fronte alla massiccia diffusione dei mass media, la scuola per l’autore doveva diventare luogo di conservazione della parola. 

Oggi la scuola deve diventare luogo di conservazione, difesa e presidio dei valori costituzionali. Valori che fuori dalla scuola sono minacciati.  

La funzione dell’istruzione è quella di rendere manifeste le tendenze prevalenti nella cultura e di contrastarle offrendo una contro argomentazione. Dove oggi la cultura va accentuando l’individualità aggressiva, la separazione, l’esclusione di categorie intere di uomini, donne e bambini, l’educazione deve accentuare cooperazione e coesione sociale. La nostra responsabilità oggi come insegnanti è  lavorare per  produrre un’inversione di rotta nella costruzione del senso comune, rilanciando valori e conoscenze significative, coinvolgendo i quartieri, i territori,  promuovendo azioni di incontro per una società capace di accogliere e gestire il cambiamento, la diversità, in un’ottica di accoglienza e di inclusione. 

Dobbiamo lavorare per promuovere la capacità di portare alla coscienza le proprie cornici mentali, riflettendo su come da un lato esse aiutano e dall’altro di fatto limitano la nostra comprensione del mondo e di noi stessi. Dobbiamo permettere a ognuno di riuscire a vivere in modo sereno e attrezzato nella società complessa curando l’incontro con l’altro, stimolando la scoperta, l’attraversamento di confini attraverso i saperi, le conoscenze soprattutto di  paesi che come l’Africa sono assenti nei nostri curricoli e nei confronti dei quali è forte il pregiudizio.   

La scuola è chiamata a mostrare e cercare di dimostrare come la compresenza di origini, lingue e universi simbolici differenti nelle aule costituisca una grande opportunità per ripensare l’educazione. Le classi sempre più disomogenee costituiscono, di fatto, un laboratorio di futuro, dove sperimentare il superamento dei confini emotivi che separano tra loro persone e segmenti di società, dove prenderci il tempo per costruire ponti che ci aiutino a coltivare l’empatia e la capacità di mettersi nei panni degli altri. Dove la conoscenza, l’apprendimento è soprattutto uno strumento per conoscere se stessi

SaltaMuri, il Tavolo interassociativo contro le discriminazioni, promosso nello scorso settembre dal MCE e che oggi conta 132 associazioni aderenti, propone alle scuole di farlo ripartendo dai testi collettivi fondamentali, assunti come leggi e disattesi, lavorando su una maggiore conoscenza dei diritti. Quelli sanciti dalla nostra Costituzione,  dalla Carta Europea dei diritti fondamentali del 2000, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, di cui è ricorso  il 70° anniversario il 10 dicembre scorso. 

I diritti umani sono stati una conquista fondamentale, ma rischiano di divenire astratti nella loro universalità e applicazione se non vengono presidiati. 

Partiamo allora dalla scuola e poniamo le premesse per la costruzione di  un nuovo rapporto tra pedagogia e politica.

Rendiamo pubblico che per chi educa è inaccettabile ogni forma di discriminazione . 

Che il rifiuto di ogni tipo di discriminazione non è una scelta personale, ma un dovere sancito dalla legge. 

Che a scuola non si può educare alla legittimazione delle differenze, all’introiezione del classismo, a considerare “regola” l’esclusione, la diversa distribuzione del diritto, delle possibilità, dell’appartenenza.  

Gli educatori, gli insegnanti, i dirigenti sono chiamati dalla Costituzione a garantire l’inclusione e il rispetto della dignità di tutti, indipendentemente dall’appartenenza etnica, linguistica, religiosa, politica…  

Questo noi insegnanti dobbiamo rivendicarlo con forza là dove è minacciato. 

È tempo di andare di bolina ha detto Franco Quercioli, un nostro amico di Firenze nell’ultima assemblea MCE. Sfidare il vento contrario e saperlo usare per portare la scuola nella direzione che vogliamo: quella della laicità, dell’equità dei risultati, della democrazia praticata, del rispetto sostanziale e non formale dei diritti, della tutela dei minori, tutti i minori nessuno escluso.

Andare di bolina non solo perché contrastiamo ogni forma di discriminazione, di razzismo, di sopruso ma anche perché alla spinta neoliberista, che incentiva l’individualismo, la competizione, l’isolamento,  noi opponiamo, non senza fatica, la cooperazione, il lavorare insieme, la presa in carico del conflitto e il suo attraversamento che è di fatto l’unico modo per renderne possibile il suo superamento. 

Controcorrente, operiamo per una scuola capace di costruire ponti d’incontro, percorsi educativi cooperativi, socializzazione delle conoscenze, climi relazionali incoraggianti e positivi, strumenti per mediare, chiarire e dipanare punti di vista diversi.

E’ in questa direzione che rivolgiamo la nostra proposta politico pedagogica dei 4 Passi per una Pedagogia dell’emancipazione.  Un repertorio di prassi fattibili, che ogni docente può far proprie e adottare come leva di cambiamento nella propria realtà scolastica e da cui partire per far crescere la condivisione sulle finalità dell’educazione. Gli interventi/azioni che proponiamo possono gradualmente incidere sui soggetti (alunni e insegnanti) e sul contesto, modificando sfondo e relazioni, poiché occorre essere consapevoli che non ci può essere emancipazione se tra soggetto e contesto non c’è ricerca di risonanze e coerenza attraverso cui il soggetto possa riconoscersi e sviluppare autonomia di giudizio e liberazione da condizionamenti. 

La pedagogia è uno sport di lotta 

Gli educatori hanno sempre la sensazione di essere al fronte. […] Sono al fronte, prima di tutto, perché devono ricordare di continuo – soprattutto a se stessi – che nessuno è condannato all’insuccesso o all’esclusione, che tutti possono imparare e crescere, che la trasmissione della cultura non può avere l’obiettivo di selezionare le élites ma deve permettere a tutti di raggiungere il piacere di pensare e il potere di agire. Contro tutte le forme di fatalismo e di rinuncia, contro l’ossessione classificatoria delle nostre società, contro la collocazione dei soggetti in griiglie da parte di istituzioni che si accontentano di “gestire i flussi”, gli educatori portano con sé un’”insurrezione fondatrice” che li colloca sempre, più o meno, in una posizione di lotta…

Gli educatori sono al fronte anche perché raccomandano – ed è ciò che in loro disturba di più – il rispetto dell’allievo. 

Gli educatori accettano volentieri […]che Ontologicamente, il sapere precede l’imparare, pedagogicamente il soggetto precede il sapere. In questa contraddizione sta tutta la difficoltà dell’azione formativa. […]L’educatore pratica volentieri la denuncia sistematica e il risanamento morale. […]

Abbiamo anche bisogno di parole rituali e di persone convinte, di certezze dichiarate e di richiami vibranti ai nostri valori fondativi.

da  Philippe Meirieu, PEDAGOGIA Dai luoghi comuni ai concetti chiave – Ed. Aracne 2017

Non sentiamoci soli, facciamo coraggio e avanziamo con speranza. 

Documenti della Segreteria Nazionale

L’OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’. Solidarietà a Carola Rackete

1989/2019: 30° ANNIVERSARIO DELLA CONVENZIONE ONU SUI DIRITTI DELL’INFANZIA

VERITA’ PER GIULIO REGENI